domenica 25 maggio 2014

VINCEVA LE PARTITE DA SOLO .

Edmundo ha rilasciato di recente una intervista di cui vi riporto il contenuto . Ognuno ha libertà di pensiero sull'uomo e va rispettato , ne ha combinate di cotte e di crude nel periodo fiorentino, ha avuto gravi problemi con la giustizia e sta pagando tutto questo .
A me resta l'immagine di una sua partita in coppa UEFA contro i croati dello Spalato giocata in campo neutro a Bari su un terreno gibboso e lui la vinse da solo con colpi da fuoriclasse .

"Edmundo, croce e delizia dei tifosi della Fiorentina. In Italia non ha lasciato il segno per motivi tecnici, semmai per le sue follie e le sue fughe carnevalesche. Poi è passato per il Napoli, ma non è andata molto meglio. In Brasile è stato il personaggio centrale del calcio anni ’90 più o meno come Ronaldo.Edmundo, croce e delizia dei tifosi della Fiorentina. In Italia non ha lasciato il segno per motivi tecnici, semmai per le sue follie e le sue fughe carnevalesche. Poi è passato per il Napoli, ma non è andata molto meglio. In Brasile è stato il personaggio centrale del calcio anni ’90 più o meno come Ronaldo. Ma ha sempre esagerato. I suoi gol belli diventavano leggendarie, le “edmundate” diventavano follie pericolose. La sua storia è ricca di pathos. Nato nel quartiere povero di Fonseca, a Niteroi (la stessa città in cui è nato Leonardo) ha iniziato la carriera professionale nel Palmeiras, poi è passato al Flamengo. Nel 1995 il primo guaio: un incidente stradale presso la Lagoa Rodrigo de Freitas, tre morti per colpa sua. L’esame tossicologico accertò che non aveva ingerito alcol ma aveva superato di parecchio i limiti di velocità. Condannato a quattro anni e mezzo di reclusione, è stato in galera solo una notte. La sua carriera, che è passata anche per il Giappone, è finita nel 2012. Oggi ha 43 anni, fa l’opinionista per Rede Bandeirantes e ha una società di organizzazione eventi. Alle sue spalle due matrimoni. Il primo con Adriana Souza, che conosceva dall’infanzia (due figli: Carolina di 19 anni e Edmundo jr. di 15), il secondo con la giornalista Clarissa Ivalski (una figlia, Catarina di 5 anni). Inoltre, una relazione con l’ex modella Cristina Mortagua da cui ha avuto un figlio, Alexandre, che oggi a 19 anni si è dichiarato omosessuale. Questa in sintesi la storia di Edmundo, detto “o animal”. Adesso Playboy Brasil ha mandato a intervistarlo il giornalista Sergio Xavier Filho, che nel 1995 aveva realizzato un reportage su di lui intitolato “O animal precisa di carinho”, l’animale ha bisogno d’affetto. La copertina di quell’edizione della rivista Placar ritraeva Edmundo con un orsacchiotto di peluche. A 19 anni di distanza sembra proprio che quell’Edmundo non esista più. Al suo posto un signore maturo e sereno anche se ancora abbastanza tormentato dalla vita. Ecco la traduzione dell’intervista di Playboy appena uscita.

- Nel 1995 l’animale aveva bisogno di affetto. E’ ancora così? “Ne ho ancora bisogno. In quell’epoca c’era una rivolta dentro di me, non è ancora passata. La differenza è che adesso sono più equilibrato. Vengo da una famiglia povera, sono arrivato al Palmeiras con uno stipendio tra i più alti del Brasile. Avevo tutte le telecamere puntate su di me e forse non mi capivano”.
- Dove è finita quella rivolta? “Un giovane non capisce gli errori che fa. A quell’epoca avevo bisogno di affetto per capire meglio il nuovo mondo in cui stavo entrando”.
- Quanto sei stato povero da bambino? “Vivevo in una casa tremenda. Mio padre faceva il barbiere, mia madre la lavandaia e la donna di servizio. Il pavimento della nostra prima casa era di terra battuta. Per fortuna avevo una zia che lavorava in banca. Siccome non aveva figli, si prendeva cura di me perché i miei non c’erano mai. Mi dava un po’ di benessere, vestiti nuovi a volte. Un’altra zia, Marly, era insegnante in una scuola privata e mi portò a studiare nell’istituto dove lavorava. Un bel casino, io vivevo ad alto livello con le zie e poi tornavo nello schifo quando andavo a casa. Ma per fortuna non ho sofferto la fame”.
- Avevi degli idoli calcistici? “Sono tifoso del Vasco e il mio idolo era Roberto Dinamite. Ma mi è sempre piaciuto veder giocare Zico. Aveva un gran dribbling e io mi identificavo molto in lui. A un certo punto con la famiglia mi sono trasferito a Sao Gonçalo, lontano da Niteroi. Mi prese il Botafogo. Ma allenarsi richiedeva uno sforzo tremendo. In autobus fino al centro di Niteroi, poi il traghetto per Rio, poi un altro autobus per Central do Brasil. Poi il treno fino a Marechal Hermes. Quattro ore di viaggio per fare 15 chilometri, poi altre quattro per tornare a casa”.
- Ci vuole una bella costanza. “Oppure bisogna avere bisogno di farlo. Per fortuna non è durato
molto. Dopo il periodo di prova e dopo essere stato messo sotto contratto, andai a vivere nel pensionato del Botafogo”. - Perché poi te ne sei andato? “Oggi il Botafogo è un club organizzato, ai miei tempi non lo era. Quando ero nelle giovanili, a volte non ci davano nemmeno la cena. Bisognava stare tre anni nelle giovanili e il primo anno io non avevo molte possibilità di arrivare in prima squadra. Così mi dissero di lasciar perdere”.
- Eri già d’accordo con il Vasco? “Mi aveva già notato Isaias Tinoco, il supervisore del Vasco. Pochi mesi dopo segnai un gol al Maracanà, nell’anteprima di Vasco-Botafogo”.
- Un gol pazzesco, dicono. Un po’ come quello che viene attribuito a Pelè per la strada, in Rua Javari. Molta gente giura di averlo visto. “Forse il gol più bello della mia vita, però non fu filmato. Ricevo la palla dal calcio d’angolo, dribblo quattro giocatori del Botafogo, poi il portiere e la metto dentro. Al 45’ del secondo tempo, nel Maracanà pieno”.
- Nel Botafogo nacque la leggenda secondo cui giravi nudo per il ritiro. “Era vero. Qui vive a Rio sa che il posto più caldo del mondo è Bangu. E il secondo è Marechal Hermes. Era una camerata per otto persone e ci dormivamo in trenta, senza ventilatori. Dormivamo tutti nudi. Si dormiva a singhiozzo. Un pisolino, una doccia gelata, un altro pisolino. Un sabato passai nudo dalla camerata al bagno. C’era una parte aperta e dicono che la moglie di un dirigente mi vide passare. La storia è vera, però non è per questo che me ne andai dal Botafogo”.
- Nel 1991 ci fu la prima possibilità di giocare in prima squadra. Quel gol del Maracanà ti aiutò? “Forse sì, ma ci vollero sei mesi per avere l’occasione. Antonio Lopes, che era allenatore della prima squadra, iniziò a farmi allenare con lui, ma la concorrenza era molto forte. Poi arrivò Nelsinho Rosa e il 26 gennaio 1992 mi mandò in campo contro il Corinthians. Nelsinho mi lasciò in campo anche quando restammo in dieci, fu un debutto fantastico”.
- Eri già un bad boy? “No. Ero disciplinato e avevo rispetto delle gerarchie. Dicevo: abito dentro uno zaino. Sì, perché avevo sempre sulle spalle uno zaino blu in cui ci stava tutto. Se sentivo che il mio compagno Geovani andava a Jacarepaguà, mi facevo dare un passaggio e dormivo a casa di una mia zia. Bismarck abitava a Niteroi e a volte mi aggregavo a lui per andare a dormire a casa di mia 
mamma. Poi Paulo Angioni, coordinatore tecnico del Vasco, riuscì a trovarmi un posto nell’hotel 
dove il Vasco andava in ritiro, nel quartiere di Gloria. E mi diedero anche una piccola auto in uso”. 

- I primi soldi veri? “Nel primo anno non ne vidi molti, ma dopo quel debutto non andò male. Il premio partita venne pagato sul pullman e io andai a dormire con i soldi nello zaino a casa di mia zia. Anzi per la verità Lucia Barros non è mia zia ma è la mamma di Luiz Claudio, che era mio compagno di squadra nel Botafogo e non fece successo. Arrivai in piena notte e riuscii a parlare con lei solo la mattina seguente. Era lunedì, giorno di riposo per me, e le avevo promesso, se le cose fossero andate bene, di comprarle una lavatrice. Non ce la faceva più a lavare a mano. Andai in un centro commerciale con Luiz Claudio, comprammo la lavatrice, un po’ di vestiti per noi e rimase anche qualcosa per aprire un libretto di risparmio”.
- E questo solo con un premio partita. “Già, ma i soldi veri li ho visti quando sono andato al Palmeiras. Riuscii quasi subito a comprare una villetta per mia mamma e un appartamento per me”. - Quando ti sei reso conto di essere famoso? “Al Palmeiras, dopo che il mio trasferimento era stato il più caro del calcio brasiliano. Avevo la responsabilità di interrompere un digiuno di sedici anni. Vincemmo subito il titolo. San Paolo valorizza chi ha successo. Ero al centro dell’attenzione”. - Pagavi quando andavi al ristorante? “Ero già fidanzato con Adriana e decisi di portarla al Jardim de Napoli, un ristorante che stava vicino all’albergo dove abitavo, nel quartiere di Higienopolis. Mi dissero che lì c’era il miglior polpettone di tutto il Brasile. Non sapevo che era un covo palmeirense. Quel giorno il titolare, il signor Tonico Buonerba, disse che non dovevo pagare il conto quella volta, 
ma nemmeno tutte le altre volte. Tutte le domeniche in cui mi trovo a San Paolo per commentare una partita su Rede Bandeirantes, io parto un po’ prima da Rio per pranzare da loro”. 

- Ma la vita nel Palmeiras non fu solo felicità, vero? Con l’allenatore Vanderlei Luxemburgo i 
rapporti non erano buoni. “Lo trattavo come un padre, non sono mai stato allenato da uno meglio di lui. Ma lui voleva affermarsi a tutti i costi perché veniva da squadre piccole come l’Olaria e il Bragantino. Pensà che litigando con me avrebbe acquisito notorietà. Un giorno mi sostituì e io uscii 
dal campo dicendo: “Se devi togliermi, è meglio che tu non mi metta nemmeno in campo”. Per quel motivo persi i Mondiali del 1994, solo per quello. Il problema è che lo dissi gesticolando, con il dito puntato. Mi fece fuori e non fui chiamato per le ultime amichevoli del Brasile. Ronaldo e Viola giocarono contro l’Islanda a Florianopolis. E segnarono…”.
- Ed erano scintille anche con gli altri giocatori? “Quando sei sotto i riflettori, tutto quello che fai ha un peso maggiore. In realtà, l’unica persona con cui litigai è Antonio Carlos Zago. Dicevano che non andavo d’accordo con Evair. Siamo diversi. Lui è uno da giorno, da chiesa, molto riservato. Io sono uno da notte, espansivo. In una delle mie esclusioni da parte di Luxemburgo, Evair fu importante. L’allenatore riunì il gruppo per decidere insieme il mio ritorno. E il primo a parlare fu Evair: “Edmundo è un po’ pazzo, ma è imprescindibile qui”. Proprio nel momento in cui tutti dicevano che non andavamo d’accordo, lui fece questo. E poi ci avvicinammo molto”.
- L’origine dei problemi è sempre quella. Sei un animale competitivo. Quando c’è un pallone da inseguire, ti trasformi. “E’ vero. Una volta nel Vasco passai il pallone a un compagno e me la restituì malissimo. Lo mandai a quel paese. Passai la palla a un altro e la perse. Mandai a quel paese pure lui. La squadra non funzionava. L’allenatore Lopes fermò l’allenamento e mi abbracciò. In pratica mi disse: “Loro non hanno la tua qualità, non sono uguali a te. Se lo fossero, guadagnerebbero come e più di te”. Questo aprì la mia mente, a trenta e passa anni mi fermai a riflettere. Avevo tutto quello che ho sempre sognato, figli in buona salute, buoni amici. Mi mancava la tranquillità. Mi misi in contatto con una psicologa”.
- Ma eri già stato dagli psicologi? “Quella fu la prima volta che ci andai convinto. Se litigo con venti persone, probabilmente non sono quelle venti persone ad avere torto. Imparai a controllarmi. Anche quando vincevo ero una persona di difficile gestione. Non riuscivo a recuperare la serenità dopo una partita. Ci volevano tre-quattro ore per tornare normale. Non davo un bacio a mia moglie e ai miei figli. Tornavo a casa, facevo un pisolino e poi tornavo socievole. Mi sono sempre fatto coinvolgere 
troppo dalle partite quando le vincevo, figuriamoci quando perdevo”.
- Non era facile starti vicino prima delle partite, anche. “Il giorno della partita non parlavo con nessuno. Nemmeno al telefono. Non dicevo buongiorno né buonasera. Arrivavo due ore prima nello spogliatoio. Avevo il mio rituale. Mi vestivo da calciatore, poi prendevo una coperta e un cuscino, anche se faceva caldo. Non dormivo, ma memorizzavo tutto quello che pensavo potesse succedere nella partita, calcolando chi mi avrebbe marcato. Se non mi riusciva quel rituale, erano guai”.
- Notti brave alla vigilia delle partite? “Mai. Alla vigilia mai. Il venerdì, molto spesso. Arrivavo spesso alla rifinitura del sabato sconvolto dalla nottata”.
- Ti sei pentito di qualche espulsione o di qualche rissa? “Quella del 1995 a Quito, quando giocai con il Palmeiras contro il Nacional nella Libertadores. Presi a calci una telecamera. Accadde all’uscita dal campo dopo il primo tempo. Avevo sbagliato un rigore al 44’, ero furioso, non volevo parlare con nessuno e il giornalista insisteva per l’intervista. Il filo della telecamera mi finì sul collo. La telecamera cadde e io le diedi un calcio”.
- E ti portarono al posto di polizia. “No, non ci arrivai. Secondo la legge ecuadoriana, se fossi rimasto in albergo non mi avrebbero potuto arrestare. Ci rimasi, ma non fu così negativo, c’era anche un casinò là dentro”.
- Come nacque il soprannome “O animal”? “Il telecronista Osmar Santos usava per definire il migliore in campo l’espressione “l’animale della partita”. Siccome io spesso ero il migliore, mi rimase quell’etichetta. Adriano, una persona a cui voglio bene, è diventato “l’Imperatore”. Fa le stesse cagate che faccio io, anche peggio, eppure è l’imperatore”.
- Forse perché a Roma ci sono stati gli imperatori e uno si chiamava Adriano. Questione di fortuna. “Forse. Ma c’è anche Luis Fabiano, pure lui fa molte cagate ed è diventato “fabuloso”, favoloso. Forse anche quella è fortuna”.
- Nel 1997 eri fortissimo. Campione brasiliano con il Vasco, capocannoniere con il record di gol in campionato. Come mai non eri titolare nel 1998 in Francia? “Il tecnico Zagallo aveva il suo attacco titolare, Ronaldo e Romario. Romario si infortunò quando eravamo già in Francia e venne tagliato. Pensavo fosse arrivato il mio momento, ma poi feci un’intervista a Radio Globo al mio amico 
Apolinho (Washington Rodrigues, un commentatore ex allenatore, ndr).
- Pensi di aver perso un posto da titolare solo per un’intervista? “Ne sono sicuro. Apolinho era in Brasile, quando seppe del taglio di Romario mi chiamò e mi fece una lunga intervista. A volte si parla troppo. Dissi che per me era arrivato il momento di giocare titolare. Per peggiorare la situazione, i giornalisti che erano in Francia se la presero molto perché avevo dato un’esclusiva a qualcuno che non era lì. Non mi guardavano in faccia. Zagallo, peggio ancora. Buttò dentro Bebeto al posto di Romario e tenne Denilson come prima riserva. Non avevo più spazio. Poi ci fu l’episodio dell’amichevole contro Andorra, vincemmo 3-0 e non mi fece nemmeno entrare”.

- Tu eri meglio di Ronaldo nel 1997? “Non solo nel 1997, ma per tutta la vita”. - Sei sicuro? “Certo. Ho fatto il doppio dei suoi gol (in realtà Ronaldo 481 e Edmundo 344, ndr). Sono stato campione più volte. Forse essere campione del Brasile non ha valore? E vincere il titolo in Italia vale? Ho giocato in Italia, la lotta è tra 2-3 squadre. In Brasile ci sono 12 squadre che possono vincere il campionato. Essere capocannoniere in Brasile è difficile. Ronaldo non ci è riuscito. L’unica differenza è quello che è stato fatto con la Nazionale. Ha fatto gol da antologia, ma il gioco in sé stesso… Credo che Romario, lui sì, abbia giocato meglio di me. Zico, Rivellino, Paulo Cesar, Caju, un sacco di giocatori hanno fatto meglio di me. Ma Ronaldo, senza bestemmiare, credo proprio di no”.
- E Romario, che ha avuto dei contrasti con te, è stato davvero migliore? “Sì. Era sensazionale. Solo lui sapeva finalizzare così. In più aveva la percezione del posizionamento e la velocità di pensiero. Ho giocato con lui all’inizio della carriera. Sui 20-30 metri nessuno gli stava dietro. Però era pigro, non ha mai lavorato Nel 1988 fece tre gol al Botafogo umiliando i difensori”.
- Se Romario non si fosse infortunato nel 1998 il Brasile avrebbe vinto il Mondiale? “Anche senza Romario potevamo vincere. Il problema fu il malore di Ronaldo nel giorno della finale, che turbò tutti. Quella Nazionale francese assomigliava al Vasco del 1997. MI spiego. Il Vasco nel 1996 andava male e con l’ingresso di due giocatori esplose. Arrivarono Evair e Mauro Galvao, due giocatori anziani. Lì però Juninho divenne Super-Juninho, Ramon fece cose eccezionali, da lì diventammo tutti fenomeni. La Francia era la stessa cosa, alcuni giocatori stavano bene in Italia, come Thuram e 
Djorkaeff, ma Zidane non era ancora un fenomeno. Improvvisamente diventarono una squadra”.
- Torniamo al malore di Ronaldo. Cosa vedesti? “Fui il primo a vedere. Stavamo in stanze attigue, separate solo da una porta. Mi alzai da tavola dopo il pranzo per andare in bagno. In quel momento attraverso la porta aperta vidi Ronaldo con le convulsioni. Era sdraiato sul letto e Roberto Carlos era sul letto a fianco con la tv accesa. Aveva la cuffia e non si era accorto di niente. Ronaldo era viola, con la bava alla bocca e il corpo che si contraeva. Uscii di corsa a cercare il medico, che stava in un’altra parte dell’albergo. Tornai ancora di corsa e insieme a Cesar Sampaio riuscii a toglierli la lingua dalla gola per farlo respirare. Quando arrivarono i medici, l’immagine non era più così scioccante”.
- Cioè quando arrivarono le convulsioni erano già terminate? “Era già tutto sotto controllo. Il dottor Joaquim da Mata, che era il più givoane, ci aiutò molto. Ma il dottor Lidio Toledo era più vecchio e, così come Zagallo, ci mise parecchio ad arrivare”. - Eppure loro decisero di far giocare Ronaldo… “Arrivarono in ritardo, non videro e poi lo schierarono, questa è la grande verità”.
- Se avessi giocato titolare tu, sarebbe stato ugualmente un caos. “Di sicuro. Tutti stavamo concentrandoci e il malore fa saltare tutta la concentrazione. Entrammo in campo disperati, la Francia se ne approfittò e dopo il primo tempo era già 2-0”.
- Quando vi dissero che Ronaldo avrebbe giocato? “All’ora della merenda apparve Ronaldo, faccia triste e a testa bassa. Non mangiò niente e uscì per parlare al telefono nel giardino dietro la sala ristorante. Leonardo richiamò l’attenzione dei medici: “Questo ragazzo non sta bene, bisogna portarlo a fare delle analisi”. Un’ora dopo, durante la lezione tattica, ci dissero che Ronaldo era all’ospedale. Zagallo raccontò la storia del Mondiale 1962, quando Pelè non poteva giocare, Amarildo entrò al suo posto e il Brasile vinse. Disse che Ronaldo non avrebbe giocato e io sarei entrato al suo posto. Così scoprii che sarei stato titolare. Zagallo si rivolse a me: “Edmundo, questa è la tua occasione”. Andammo allo stadio. Ci cambiammo e al momento di andare a fare il riscaldamento, arrivò Ronaldo, sorridente, dicendo: “Gioco. Dov’è la mia roba? Devo giocare”. Si riunirono Zagallo, Zico, il dottor Lidio Toledo, il dottor Joaquim da Mata, e il supervisore Americo Faria. Zagallo mi fece un 
segno da lontano: “Mi dispiace, Edmundo, abbi pazienza”. Vabbè…”.
- E andò male. “Il medico doveva dimostrare di avere polso e non permettere di utilizzare un giocatore che aveva avuto le convulsioni. Ma togliere il miglior giocatore del mondo non era una decisione facile”. - Parlando di migliore del mondo, secondo te a che punto è Neymar? “Lo giudicheremo al Mondiale. Gioca in due modi diversi. Nel Barcellona non rischia il dribbling perché in quello stile di gioco solo Messi può rischiare. Però secondo me Neymar ha lo stesso potenziale di Messi e Cristiano Ronaldo”.
- E’ al livello di Zico e Romario? “Ci sta arrivando vicino. Manca ancora qualcosa per arrivare a Zico. Deve essere protagonista in una grande squadra. Si parla sempre di Barcellona e Real Madrid, ma il Flamengo di Zico fu protagonista del calcio mondiale. In Brasile si valorizza tutto quello che è straniero. La Champions League sembra qualcosa di interplanetario. Ma va, io là ho giocato e me ne sono mangiati tanti. E’ più difficile giocare in Brasile, a 45 gradi, su campi bruttissimi, con la gente che lancia oggetti in campo. Mettete Iniesta e Messi a giocare a Bangu, poi vediamo”.
- Cosa c’è di speciale in Luis Felipe Scolari? “Non ho mai lavorato con lui, ma qualcosa di speciale ce l’ha di sicuro. Ha preso la stessa squadra di Mano Manezes e l’ha trasformata. Allenare è facile. Gestire un gruppo è difficile, ma Felipao lo fa con maestria. Certo, poi il tifo pesa. Io ero allo stadio in tutte le partite della Confederations Cup. Ho pianto prima di ogni partita quando suonavano l’inno nazionale. Eu piango, canto, nonostante le limitazioni e il potere della Fifa”.
- Chi deve temere il Brasile? “La Spagna è sempre la Spagna. Il Brasile avrà tre avversari forti: la Spagna, l’Argentina e la Germania. Poco probabile che il campione sia una squadra diversa sa queste. L’Argentina arriva molto forte, ha giocatori, il torneo in Brasile li motiva molto. Messi deve giocare bene per forza, è già al terzo Mondiale”. - Su chi scommetti oltre a Neymar? “Fred. Poi Thiago Silva può dare molto, Paulinho è parecchio forte, ma chi decide è l’attaccante. Perché Fred? Perché il Brasile crea molte occasioni e lui le può sfruttare”.
- Hai giocato nella Fiorentina tra il 1998 e il 1999. Quanto pensi di aver sprecato in Italia? “Il 100%. L’Italia è un bel posto, pieno di persone meravigliose. Io ho buttato via quell’esperienza. Ero appena 
diventato campione con il Vasco, arrivai in Italia e andai direttamente in panchina. E mi pento molto, ma davvero molto, di aver fatto pressioni per tornare in Brasile”.

- Cosa andò storto? “Il Vasco mi vendette dopo la Coppa America, con l’accordo di trasferirmi solo alla fine dell’anno solare. Nel frattempo arrivarono molte proposte migliori e io feci il possibile per non andare. La Fiorentina non mi sembrava un club così ambizioso. Chiesi di mettere nel contratto una clausola che mi consentiva di tornare in Brasile per il Carnevale, e la Fiorentina la accettò. Mi concedevano tutto. Cominciai andando in panchina, protestai con l’allenatore e lui mi disse che dopo la Copa de Oro del gennaio 1998 sarei diventato titolare. Nel frattempo la Fiorentina infilò una serie di vittorie. Tornai dalla Copa de Oro una settimana prima del Carnevale e finii di nuovo in panchina. Ero furioso. Non sopporto chi non mantiene la parola. Comprai un biglietto per andare a casa. Che fosse Carnevale era solo una coincidenza. Zagallo mi telefonò dicendomi che se non giocavo, non sarei andato al Mondiale. Tornai e Firenze e diventai titolare. Cominciai a segnare e a giocare bene. Poi arrivò il Mondiale. Il nuovo allenatore, Giovanni Trapattoni, venne a parlare con me in Francia. Disse che aveva fiducia in me, che sarei stato titolare assoluto. “Okay, però adesso voglio un aumento”, gli dissi. Avevo scoperto che Rui Costa e Batistuta guadagnavano molto più di me. E mi diedero l’aumento”.
- Poi ci fu un altro problema per il Carnevale del 1999… “In quel periodo la Fiorentina era in ritardo con il pagamento degli stipendi. E nel contratto c’era sempre la clausola per tornare in Brasile a Carnevale. Ne approfittai per chiedere gli stipendi arretrati. Arrivò la partita in casa contro il Milan. Eravamo primi in classifica. Quel giorno, Oliveira si infortunò, poi si infortunò anche Batistuta e la riserva Esposito entrò e si fece espellere. Arrivò il lunedì e non mi pagavano. Presi un aereo e tornai in Brasile. Che accadde allora? La domenica seguente, era Carnevale, la Fiorentina giocò contro l’Udinese e perse. In attacco dovette giocare il terzino sinistro Serena. Il Milan vinse in casa e ci superò. Mi diedero la colpa di tutto. Dicono che fu a causa del Carnevale. Tornai. La partita successiva la vinsi praticamente da solo contro l’Empoli. Ma il Milan non perse più e vinse il campionato. Ah, non mi pagarono comunque. Per avere i soldi dovetti andare in tribunale”.

- Dove hai guadagnato di più in carriera? “Ho guadagnato molto per i ritardi dei club. Questa è una grande verità. Quando non presi gli stipendi dal Flamengo, mi feci dare il 15% sul mio trasferimento. Il Vasco non mi pagò per un po’ e anche lì presi il 15% sul trasferimento. Quando mi vendettero alla Fiorentina, avevo diritto al 30% del prezzo e guadagnai parecchio. E poi i Giappone. Mi pagavano in dollari, che allora valevano tanto”.
- Quali sono i tuoi sogni? “Diventare presidente del Vasco. Potrei anche candidarmi alle prossime elezioni ma per farlo dovrei smettere di fare l’opinionista e proprio adesso che c’è il Mondiale non me la sento”.
- Quale sarebbe il punto principale della tua campagna elettorale? “La lotta alla droga. Ho perso un fratello a causa delle droghe”.
- Tuo fratello è stato rovinato dalla cocaina. L’hanno trovato in un bagagliaio con un sacco di piombo in corpo. Quanto ci hai messo per riprenderti? “ Sono distrutto ancora oggi. Ho perso mio fratello, ma anche mio padre e mia madre, che si sono ammalati e sono morti pochi anni dopo. Le mie sicurezze se ne sono andate. Non mi riprenderò mai del tutto. Scambierei i miei soldi, la mia carriera, la mia fama, per averli qui con me. Posso solo fare finta di essere felice. Mio fratello non è stato un trafficante, era solo un fruitore. Ma quando non lavori, o dai una mano allo spaccio oppure devi fare piccoli furti per mantenere il vizio”.
- Hai perso la famiglia in poco tempo. Come hai elaborato tutto questo nella tua testa? “Mi è capitato spesso di lasciare un ritiro per andare a ripescare mio fratello che stava sniffando. In una di queste occasioni, qualcuno mi vide e disse che ero coinvolto nella droga. Questo è troppo. In un attimo però questo cominciò a darmi fastidio. Non riuscivo ad aiutare mio fratello e nemmeno a giocare bene. Però lo andavo a cercare, lo aiutavo a farsi una doccia, gli davo del latte per ridurre gli effetti della cocaina. Di solito quando lo trovavo era sparito da due o tre giorni”.
- Come facevi a scoprire dove stava? “Facile. Andavo in quartiere e chiedevo: “Dov’è Luizinho?”. Un paio di telefonate e lo trovavo. Lui aveva un grande rispetto per me, aveva tre anni meno rispetto 
a me. Ma una settimana dopo che l’avevo recuperato, cominciava a sniffare di nuovo. Parlai con i miei genitori. Piangevo tutti i giorni. Dissi allora ai miei: “Piangerò solo un’altra volta per lui, quando morirà”. Sembra incredibile, ma questo discorso fece cambiare Luizinho. Rimase due o tre anni senza usare droghe, sposato e con un lavoro. Però poi morì”.
- Morì per qualche vecchio debito? “Era sparito e mia mamma mi aveva avvisato. Una ricaduta, credo. Qualche giorno dopo lo trovarono. Giocavo in Giappone e ricevetti la notizia con molte ore di ritardo per il fuso orario. Sarei tornato subito. Però Luizinho era già in stato di decomposizione, lo trovarono in un bagagliaio e doveva essere sepolto subito. Mi feci forza, finii la stagione e poi tornai in Brasile per stare con i miei genitori. Dissero che poteva essere un problema di debiti arretrati, ma non mi interessa niente. Mio padre la prese molto male. Si fece tatuare addirittura il volto di Luizinho”.
- Eri più legato a tuo padre o a tua madre? “A mio padre. Ma lui era molto legato a mia madre. Mio padre mi ha dato tutto quello che ho di meglio. Mi ha insegnato molto, ma non nel calcio. Aveva le gambe a forbice. Non capiva niente di calcio. Però non accettava che parlassero male di me. Ogni tanto mi chiamavano per dirmi che stava litigando con qualcuno in quartiere a causa mia”.
- Cosa ti ricordi dell’incidente d’auto di Lagoa Rodrigo de Freitas, nel quale morirono tre persone? “Tutto. Un altro ricordo vivo e triste. Ero con un mio amico. Il primo locale dove volevamo andare era pieno e ne cercammo un secondo. Lì apparvero tre ragazze”. - Ma l’incidente in sé come fu? “Il ragazzo dell’altra automobile non era molto capace di guidare. Mi tagliò la strada e non ci fu tempo per frenare. Ci scontrammo e la mia auto si capottò. Lui e la fidanzata moriroo sul colpo. Un’altra ragazza dietro si salvò. Una ragazza che era con noi, Joana, fu l’unica a farsi male. Però poi ebbe un’emorragia interna e morì in ospedale”. - Hai dovuto indennizzare le famiglie delle vittime? “Per tutti. Sette persone. Anche chi non si fece niente finì per approfittarne. Il caso divenne esemplare. Feci un accordo con tutti e non feci troppe discussioni. Fu una specie di auto-punizione”.
- Ti è rimasto un segno in testa dopo quell’incidente. In questo modo te ne ricordi tutti i giorni quando ti guardi allo specchio? “Sul segno, ci sono pareri diversi. In famiglia abbiamo sempre avuto 
la testa strana. Dopo l’incidente, nel 1998, su un aereo che mi riportava a casa dall’Italia, mi sedetti al fianco del chirurgo plastico brasiliano Artur Pororoca. Mi guardò e mi disse che era semplice sistemare quel segno. Mi offrì di operarmi gratis, ma si sa che quello che è gratis è sempre più caro. Mi operò, ma non molto bene”.
- Dopo l’incidente hai cambiato modo di guidare? “Sì. Ora guido poco. Ho l’autista. Mi è rimasto il trauma. Non avevo bevuto quella sera, non ho mai bevuto molto. Scelgo un giorno della settimana in cui bevo un po’ e in quei giorni non guido mai”.
- Tua moglie guida? “Sì, ma ci siamo lasciati”.
- Non si sapeva “E’ successo quattro mesi fa”.
- Così sei sul mercato “Esatto”. - Cioè, quando sei entrato sul mercato? “Presto. Le donne mi sono sempre piaciute molto. Più che agli altri. Avevo un amico, Maurinho, biondo con gli occhi azzurri. Dicevo che lui metteva il video e io l’audio. Lui attirava le donne e io facevo il resto”.
- La prima volta? “Fu con una mia cugina, credo”. - In che senso credo? “No, fu con lei. Si chiamava Saionara, era una cugina più vecchia. Io avevo 13 o 14 anni, lei 18 o 19, era già donna, Non sapevo nemmeno da dove cominciare”.
- Racontala giusta. “MI prese lei. Era una cosa complicata all’epoca. Ci si baciava tanto, si faceva molto petting, ma non c’erano i soldi per un motel e non c’era una macchina per farci sesso. Era tutto a rischio. Posso dire invece con certezza che con Daniela, la mia prima ragazza che abitava a Guadalupe, consumai davvero. E con grande piacere. Avevo 15 o 16 anni”.
- Tu riconosci di essere un donnaiolo. Ti sei sposato presto, poi ti sei sposato di nuovo. Secondo i miei calcoli, sei stato 20 anni in unioni stabili. “Sono stato fidanzato tre anni con Adriana e poi sono stato sposato con lei 12 anni. Sei mesi dopo ho conosciuto Clarissa. Sono stato con lei quattro anni e sono stato sposato altri cinque. Ho avuto una vita. Tra virgolette, regolare. Ho sempre avuto una relazione principale, ma da lì facevo le mie scappatelle”.
- Le separazioni sono state tranquille? “Sembra incredibile, ma nessuna delle due separazioni è nata 
da un tradimento. Solo per la mia assenza da casa. Perché uscivo da casa alle 10 del mattino per giocare a futevolei e tornavo alle 10 di sera, perché scappavo dalle feste di famiglia. Ho tradito e non ho vergogna di ammetterlo. Però non manco mai agli evcnti dei miei figli. Adesso sto bene, posso giocare a carte senza essere costretto a tornare a una certa ora, posso portarmi donne a casa, posso baciare chi voglio in discoteca”.
- Ma non lo facevi anche prima? “Sì ma ero sposato e facevo del male a persone a cui volevo bene. Ho amato troppole mie due mogli. Fare del male a chi ami è triste. Mi faceva male. Oggi vivo bene, esco persino a cena con loro, chiedo notizie dei loro fidanzati, ridiamo insieme”.
- Non con tutte e due insieme, credo. “Solo in occasione di qualche compleanno. Adriana pensava che già stessi con Clarissa quando mi separai da lei. E non è vero. L’altra verità è che non ho mai avuto amanti. Mi sono preso un sacco di donne, mai amanti”.
- E i figli? “Sono meravigliosi, educati, affettuosi nei miei confronti”.
- E Alexandre, che è frutto di una relazione con la modella Cristina Mortagua? “Ha 19 anni e gli pago l’equivalente di 30 salari minimi. Non frequenta l’università ma non posso abbassare questa cifra. Ho sempre torto, come nel caso dell’incidente stradale. Quando c’è di mezzo la giustizia, e c’entra Edmundo, loro mi bastonano”.
- Parli con lui? “Voglio bene ad Alexandre come agli altri figli. Ma lui.. Lui ha preso la sua strada. E’ andato a vivere a San Paolo, fa lo stilista, lavora di notte e dorme di giorno. Cambia numero di telefono continuamente. Abbiamo pochi contatti. Vista la distanza, abbiamo perso il rapporto. Ma gli voglio bene. Il mio telefono è sempre quello e mi viene voglia di fare un appello perché mi venga a trovare”.
- Dovete trovare un punto d’incontro. “Lo faremo. Abbiamo avuto un contatto. Lui e sua madre hanno avuto un problema con la polizia, Alexandre denunciò la madre per aggressione nel 2011. La psicologa mi chiese di fare dieci sedute di psicoterapia con lui”. - Insieme? “Dieci volte, io e lui insieme. Abbiamo tirato fuori un sacco di cose. Poco dopo lui ha compiuto 18 anni. Ha sempre avuto il sogno della libertà, di vivere in un suo mondo. E si trasferì a San Paolo”. 

- Avete mai parlato di sesso? La sua scelta è diversa dalla tua. “Non ne abbiamo parlato apertamente. Anche se per la verità si poteva capire qualcosa. E’ una sua scelta. Il mio consiglio di padre è stato questo: l’educazione nella vita è tutto. La sua sessualità non è importante, bisogna essere gentili e rispettare le persone. E poi bisogna lavorare e correre dietro alle cose, non aspettare che ti caschino addosso dal cielo. Lui è educato, questo è certo”.


Nessun commento:

Posta un commento