giovedì 7 maggio 2015

50 ANNI DI RIFF

Cinquant'anni fa spaccati, 7 maggio 1965, e un mezzogiorno assolato in Florida. Mezzogiorno, va beh, ora più, ora meno. Sicuri invece la località, Clearwater, l'hotel stile Holiday Inn dotato di piscina. Sul bordo di quella, un gruppo di giovani piuttosto arruffati, non propriamente in perfetto stile Wasp. Uno ha in mano una chitarra e sta ripetendo in continuazione un giro insistito di tre accordi su cui smozzica una altrettanto insistita frase. Il coetaneo davanti a lui se ne sta lì, ascolta. Interessato, ma non rapito. Gli piacciono tuttavia, ancora più che la musica, le parole che il suo amico ripete sul suo tappeto chitarristico, "I can't get no satisfaction", non posso avere soddisfazione. Il giovane con la sei corde, Keith Richards, l'ha abbozzata la notte precedente, in camera, da solo, dopo un concerto del gruppo suo e del suo coetaneo Mick Jagger, i Rolling Stones. Notte sicuramente non interpretata da educande: tant'è vero che dopo poco aver iniziato a suonare, crolla in un sonno profondo. Storie da doposbronza, all'apparenza. Ma Keith aveva la buona abitudine di attaccare sempre un mangianastri in modalità "record" ogni volta che provava a mettere in musica qualcosa che gli frullava in testa. "La mattina seguente mi rialzai e riascoltai il nastro - ha raccontato molti anni e milioni di dischi dopo - si sentono circa due minuti di questo riff molto grezzo. Poi si sente che mollo tutto, e i restanti quaranta minuti sono io che russo". 
E nel momento stesso in cui, riapparendo alla luce del giorno, Richards ha proposto il suo embrione di canzone, ha inconsapevolmente schiacciato l'interruttore di una luce fortissima, abbacinante. Quella dei Rolling Stones. Ma ancora di più quella del rock, inteso ancor prima che come genere musicale, come cultura, messaggio sociale e generazionale. Da quell'abbozzo in stile quasi folk, acustico, nasce qualcosa che rispetto all'idea originale quasi si spoglia, si scarnifica, mette al centro innanzitutto una chitarra distorta che ripete quasi ottusamente quelle tre note, che sono poi quelle del blues, accompagnate da un ritmo altrettanto insistito, quattro quarti e tamburello, tum-tum-tumtumtum. E poi dal testo. Da quelle parole che Mick Jagger ha messo insieme intorno al ritornello base: e in cui si canta - o meglio, si grida, si lamenta, si sputa rabbia - l'impossibilità di essere soddisfatti per un giovane dell'epoca, specie per un giovane americano. Una insoddisfazione sociale, un senso costante di inquietudine che sfocia nella ribellione di un ragazzo che non si vuole fare chiudere nel recinto delle pecore, nel gregge consumista, fesso e contento del quale fanno parte per primi i suoi genitori, che come tutti gli altri ascoltano "quel tipo alla radio che mi dice cose inutili, e pensa di impressionarmi" e che si precipitano al mall perché quell'altro alla tv gli ha detto "quanto bianche possono essere le mie magliette". E pure una insoddisfazione sessuale, con quel tentativo di "farsi qualche ragazza" frustrato dal diniego sotto forma di rinvio, "torna più avanti in settimana, sono in una striscia perdente". Che, per chi non capisse, è un'allusione alle mestruazioni. E il tutto legato da quel mantra sempre più urlato, "perché ci provo, ci provo, ma non riesco ad avere soddisfazione".


Musica, più arrangiamento, più testo, più significato, più interpretazione. Quando a inizio giugno "(I can't get no) Satisfaction" cala sul mondo del 1965, ha la potenza di una bomba atomica, che scavalca le colonne d'Ercole della nuova cultura giovanile europea e americana appena spostate oltre dai Beatles e dalla Beatlemania. Il riff distorto di Richards esce da tutte le macchine, dai mangiadischi, dalle antenne delle radio pirata che si beffano delle censure della Bbc. È provato che Satisfaction sia il primo pezzo di musica leggera di cui la gente, prima del ritornello o di una strofa, canticchia la frase musicale, "ta-tta.. tananaaa, tanatanatanannaaaa". Ma c'è poco da fischiettare allegramente, perché l'effetto reale è che Satisfaction, per magica ma consapevole alchimia, va a toccare in pieno il nervo scoperto dei ragazzi, è davvero simile alla martellatina che, scoccata nel punto giusto, fa saltar via il ginocchio. Gli Stones, idolatrati in avvio dalle ragazzine, vengono allora sposati in tutto e per tutto dal giovane pubblico maschile, che identifica in loro il simbolo della ribellione, 
dell'anticonformismo, del distacco dagli schemi vecchi per non dire putridi delle generazioni precedenti.  Per capire davvero quanto sia stato epocale questo impatto, basti vedere le immagini di un concerto della band nel periodo tra il 1965 e il 1967: violenza inaudita, sedie, locali, palchi distrutti, botte con la polizia, la band spesso costretta alla fuga per sfuggire all'abbraccio mortale degli adepti impazziti. Il punk è stato acqua di rubinetto, a confronto, davvero. Perché "(I can't get no) Satisfaction", con quella doppia negazione, grammaticalmente e soprattutto politicamente scorretta, è diventato una soundtrack della condizione psicosociale di milioni di giovani, per più di un sociologo é una delle prime scintille che poi, fatta fuori la breve estate hippie, ha portato all'incendio del 1968. 

Mezzo secolo dopo, il rock non è morto, anche se non sta benissimo, e incredibilmente manco i Rolling Stones, sopravvissuti - tranne Brian Jones - lungo i decenni in barba a qualsiasi elementare principio medico sul rapporto tra eccessi e longevità. Satisfaction, dal canto suo, è evoluta in mille forme, mille canzoni, mille artisti che hanno rielaborato il suo messaggio e hanno portato a vette altissime l'hard rock, il metal, il citato punk, il grunge, l'indie di vario genere e tipo. Persino il rap, che se ci si pensa bene - nell'enorme differenza musicale - esprime la stessa rabbia, la stessa insoddisfazione che sfocia nella sfida allo status quo e nell'invito alla ribellione. La ricetta originale di quei "bolliti" di Mick Jagger e Keith Richards. E che però, quando da un palco nel mondo attaccano ancora quella canzone del bordo piscina, provocano nei primi secondi ancora la stessa, identica, fortissima vibrazione di allora in un pubblico che non è più certo composto in maggioranza di teen-ager. Perché quelle tre note suonate così e cantate così toccano in qualsiasi stagione la rete interiore, i nervi, l'anima, gli angoli in fondo mai domati del cervello. E questa è la ragione per cui fino a che ci sarà vita, ci sarà 
Satisfaction. Anzi, pardon, non ce ne sarà proprio. No-no, no!


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